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Sostenibilità

Papa Francesco alla Cop26 : è necessario che i Paesi sviluppati contribuiscano a risolvere il debito ecologico

Papa Francesco ha scritto un messaggio alla Conferenza di Glasgow indirizzato al presidente della Cop26, Alok Sharma e letto dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin.

Mentre inizia la Conferenza di Glasgow, siamo tutti consapevoli che essa ha l’importante compito di mostrare all’intera comunità internazionale se realmente sussiste la volontà politica di destinare con onestà, responsabilità e coraggio maggiori risorse umane, finanziarie e tecnologiche per mitigare gli effetti negativi del cambiamento climatico così come per aiutare le popolazioni più povere e vulnerabili, che sono quelle che ne soffrono maggiormente.

Ma, davanti a noi, vi è di più: questo compito dovrà, infatti, essere svolto nel pieno di una pandemia che da quasi due anni sta flagellando la nostra umanità. Accanto ai vari drammi che ha portato il Covid-19, la pandemia ci insegna anche che non abbiamo alternative: riusciremo a sconfiggerla solo se tutti quanti prenderemo parte a questa sfida. Tutto ciò, lo sappiamo bene, richiede una profonda e solidale collaborazione tra tutti i popoli del mondo.

Vi è stato un prima della pandemia; esso sarà inevitabilmente differente dal dopo-pandemia che dobbiamo costruire, insieme, prendendo spunto dagli errori fatti nel passato.

Analogo discorso è possibile farlo nel contrastare il problema globale del cambiamento climatico. Non abbiamo alternative. Possiamo conseguire gli obiettivi scritti nell’Accordo di Parigi solo se si agirà in maniera coordinata e responsabile. Sono obiettivi ambiziosi, ma indifferibili. Oggi queste decisioni spettano a voi.

La COP26 può e deve contribuire attivamente a questa coscienziosa costruzione di un futuro dove i comportamenti quotidiani e gli investimenti economico-finanziari possano realmente salvaguardare le condizioni di una vita degna dell’umanità di oggi e di domani in un pianeta “sano”.

Si tratta di un cambiamento d’epoca, di una sfida di civiltà per la quale vi è bisogno dell’impegno di tutti ed in particolare dei Paesi con maggiori capacità, che devono assumere un ruolo guida nel campo della finanza climatica, della decarbonizzazione del sistema economico e della vita delle persone, della promozione di un’economia circolare, del sostegno ai Paesi più vulnerabili per le attività di adattamento agli impatti del cambiamento climatico e di risposta alle perdite e ai danni derivanti da tale fenomeno.

Da parte sua la Santa Sede, come ho indicato all’High Level Virtual Climate Ambition Summit del 12 dicembre 2020, ha adottato una strategia di riduzione a zero delle emissioni nette (net-zero emission) che si muove su due piani: 1) l’impegno dello Stato della Città del Vaticano a conseguire questo obiettivo entro il 2050; 2) l’impegno della Santa Sede stessa a promuovere un’educazione all’ecologia integrale, ben consapevole che le misure politiche, tecniche ed operative devono unirsi a un processo educativo che, anche e soprattutto tra i giovani, promuova nuovi stili di vita e favorisca un modello culturale di sviluppo e di sostenibilità incentrato sulla fraternità e sull’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente naturale. Da questi impegni sono nate migliaia di iniziative in tutto il mondo.

Anche in questa prospettiva il 4 ottobre scorso, ho avuto il piacere di riunirmi con vari leader religiosi e scienziati per firmare un Appello congiunto in vista della COP-26. In quell’occasione, abbiamo sentito voci di rappresentanti di tante fedi e tradizioni spirituali, di tante culture e ambiti scientifici. Voci differenti e con diverse sensibilità. Ma ciò che si è potuto avvertire chiaramente era una forte convergenza di tutti nell’impegnarsi di fronte all’urgente necessità di avviare un cambiamento di rotta capace di passare con decisione e convinzione dalla “cultura dello scarto” prevalente nella nostra società a una “cultura della cura” della nostra casa comune e di coloro che vi abitano o vi abiteranno.

La ferite portate all’umanità dalla pandemia da Covid-19 e dal fenomeno del cambiamento climatico sono paragonabili a quelle derivanti da un conflitto globale. Così come all’indomani della seconda guerra mondiale, è necessario che oggi l’intera comunità internazionale metta come priorità l’attuazione di azioni collegiali, solidali e lungimiranti.

Abbiamo bisogno di speranza e di coraggio. L’umanità ha i mezzi per affrontare questa trasformazione che richiede una vera e propria conversione, individuale ma anche comunitaria, e la decisa volontà di intraprendere questo cammino. Si tratta della transizione verso un modello di sviluppo più integrale e integrante, fondato sulla solidarietà e sulla responsabilità; una transizione durante la quale andranno considerati attentamente anche gli effetti che essa avrà sul mondo del lavoro.

In tale prospettiva, particolare cura va rivolta alle popolazioni più vulnerabili, verso le quali è stato maturato un “debito ecologico”, connesso sia a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ambientale, sia all’uso sproporzionato delle risorse naturali del proprio e di altri Paesi. Non possiamo negarlo.

Il “debito ecologico” richiama, per certi versi, la questione del debito estero, la cui pressione ostacola spesso lo sviluppo dei popoli. Il post-pandemia può e deve ripartire tenendo in considerazione tutti questi aspetti, collegati anche con l’avvio di attente procedure negoziate di condono del debito estero associate a una strutturazione economica più sostenibile e giusta, volto a sostenere l’emergenza climatica. È «necessario che i Paesi sviluppati contribuiscano a risolvere il debito [ecologico] limitando in modo importante il consumo di energia non rinnovabile, e apportando risorse ai Paesi più bisognosi per promuovere politiche e programmi di sviluppo sostenibile». Uno sviluppo a cui, finalmente, possano partecipare tutti.

Purtroppo dobbiamo constatare amaramente come siamo lontani dal raggiungere gli obiettivi desiderati per contrastare il cambiamento climatico. Va detto con onestà: non ce lo possiamo permettere! In vari momenti, in vista della COP26, è emerso con chiarezza che non c’è più tempo per aspettare; sono troppi, ormai, i volti umani sofferenti di questa crisi climatica: oltre ai suoi sempre più frequenti e intensi impatti sulla vita quotidiana di numerose persone, soprattutto delle popolazioni più vulnerabili, ci si rende conto che essa è diventata anche una crisi dei diritti dei bambini e che, nel breve futuro, i migranti ambientali saranno più numerosi dei profughi dei conflitti. Bisogna agire con urgenza, coraggio e responsabilità. Agire anche per preparare un futuro nel quale l’umanità sia in grado di prendersi cura di sé stessa e della natura.

I giovani, che in questi ultimi anni ci chiedono con insistenza di agire, non avranno un pianeta diverso da quello che noi lasciamo a loro, da quello che potranno ricevere in funzione delle nostre scelte concrete di oggi. Questo è il momento della decisione che dia loro motivi di fiducia nel futuro.


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Agricoltura

Il suolo italiano è malato

Ogni 100 metri quadri di suolo, 47 presentano qualche forma di degrado. L’80% dei terreni agricoli, pari al 23% del territorio nazionale, è sottoposto a fenomeni erosivi e il 68% ha perso più del 60% del carbonio organico originariamente presente in essi. Il 23% dei suoli agricoli presenta livelli eccessivi di azoto mentre il 7% è sottoposto a fenomeni di salinizzazione secondaria. Le aree soggette a rischio alto o molto alto di compattazione coinvolgono l’8% del territorio. E poi ancora c’è il problema contaminazione: quella da alti quantitativi di rame riguarda il 14% della superficie italiana, mentre l’1% presenta elevate concentrazioni di mercurio. Sono sono alcuni dei numeri – certamente noti agli addetti ai lavori ma sconosciuti a buona parte dell’opinione pubblica, degli operatori dell’informazione e degli amministratori pubblici – contenuti nella prima edizione del Rapporto “Il suolo italiano ai tempi della crisi climatica” presentato a pochi giorni dal World Soil Day della FAO che si tiene il 5 dicembre.

“La degradazione del suolo rappresenta una grave minaccia per il Pianeta” ammonisce Maurizio Martina, vicedirettore generale FAO nella prefazione del rapporto. “Dai suoli dipende infatti una serie di servizi ecosistemici fondamentali per il benessere umano, come la protezione dell’ambiente e della biodiversità, la tutela del paesaggio, l’architettura e i processi urbani, oltre alle attività agricole. Il 95% del cibo globale viene prodotto direttamente o indirettamente dal suolo. Con il tasso corrente di erosione si stima che circa il 90% dei suoli sarà a rischio entro il 2050. Senza un’inversione di tendenza, potremmo perdere la totalità della terra fertile e coltivabile entro i prossimi 60 anni”.

L’idea del rapporto è di Re Soil Foundation, fondazione creata da Università di Bologna, Politecnico di Torino, Coldiretti e Novamont. Ma la pubblicazione è un’opera a più mani, resa possibile dal coinvolgimento del Joint Research Center della Commissione europea, CREA (Consiglio per la Ricerca e l’Economia Agraria), dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca ambientale), Ministero dell’Ambiente e dell’Università di Bologna.

“Il degrado del suolo è ancora oggi la Cenerentola delle emergenze ambientali. La sua sottovalutazione rappresenta un ostacolo all’adozione delle misure indispensabili per invertire la tendenza e riportare in salute i suoli italiani” spiega Giulia Gregori, membro del Consiglio di amministrazione di Re Soil Foundation – “Con questa pubblicazione abbiamo quindi cercato di riunire i dati più aggiornati e completi a nostra disposizione. Le dimensioni e le implicazioni dell’emergenza suolo sono ovviamente ben conosciute dagli addetti ai lavori, ma lo sono meno tra gli operatori dell’informazione, i decisori pubblici e l’opinione pubblica. In questo modo speriamo di aiutare ad innalzare l’attenzione su questo problema che ha già oggi impatti gravi e multiformi e richiede quindi di essere affrontato attraverso un approccio olistico che coinvolga tutte le competenze e le esperienze virtuose che ruotano attorno al Pianeta-suolo”.

Uno dei problemi da affrontare con maggiore urgenza è proprio la mancanza di dati adeguati. “A nostra disposizione – spiega Luca Montanarella, componente del Joint Research Center della Commissione europea, vincitore del Glinka World Soil Prize della FAO – abbiamo dati assolutamente parziali che non permettono una valutazione dettagliata di ogni singolo fenomeno su scala nazionale. Per una valutazione oggettiva dello stato dei suoli su tutto il territorio nazionale, sono indispensabili dati dettagliati, raccolti secondo procedure standardizzate e ripetuti nel tempo. Al momento, questi dati sono disponibili solo parzialmente”. Lacune cui cerca di rispondere la proposta di direttiva sul monitoraggio del suolo presentata nei mesi scorsi dalla Commissione europea e che, nelle prossime settimane, inizierà l’iter parlamentare di approvazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio Ue.

IL CARBONIO ORGANICO CONTINUA A DIMINUIRE

I dati a nostra disposizione, sono in ogni caso, estremamente preoccupanti. È il caso del carbonio organico, componente che ha un ruolo vitale per il funzionamento dell’ecosistema suolo e per la sua fertilità: la maggior parte dei suoli italiani, in particolare quelli coltivati, hanno un contenuto di carbonio organico da molto basso (< 1%) a basso (1÷2%), in ogni caso inferiore al limite considerato necessario per poter considerare sano un suolo. “La carenza della sostanza organica – spiega Claudio Ciavatta, professore ordinario di Chimica Agraria all’università di Bologna – interessa territori da nord a sud dell’Italia. Sono particolarmente colpite alcune aree del Piemonte nella zona del cuneese, dell’Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, gran parte dei territori della Sicilia e parte della Sardegna. Una situazione dannosa sia sotto il profilo agronomico che ambientale”.

La perdita di sostanza organica è connessa con la diffusione di tecniche tipiche dell’agroindustria che hanno portato al sopravvento della fertilizzazione chimica, facendo aumentare le rese agricole ma depauperando però i suoli.

EROSIONE E DESERTIFICAZIONE

L’uso di tecniche dannose per i suoli non ha causato danni solo sul fronte del tasso di carbonio organico. “La meccanizzazione delle operazioni colturali e l’uso di pratiche agronomiche poco sostenibili, come concimazioni azotate e lavorazioni troppo profonde, unite al mancato presidio del territorio da parte dell’uomo, hanno fatto perdere 135 delle 677 gigatonnellate di carbonio stoccato nei terreni mondiali” ricorda all’interno del rapporto Giuseppe Corti, direttore Agricoltura e Ambiente del CREA (Consiglio per la Ricerca e l’Economia agraria). “Tutto questo, ha accentuato il fenomeno dell’erosione. In Italia, le perdite annuali di suolo sono superiori a 10 tonnellate per ettaro all’anno. Ma in alcuni territori, superano anche le 100 T/ha. Ciò equivale all’asportazione di uno spessore di suolo compreso tra 1 e 10 millimetri all’anno”.

Perdita di carbonio organico e erosione sono tra i fenomeni più rilevanti di degrado, che al suo massimo livello si presenta come desertificazione, con la perdita totale dei servizi ecosistemici. L’Italia è compresa a pieno titolo tra i Paesi a rischio di desertificazione nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione. “Le regioni più a rischio sono in questo caso quelle in cui l’elevato uso non sostenibile del suolo si associa a una scarsità di risorsa idrica” spiega Francesca Assennato, responsabile dell’Area monitoraggio e analisi integrata dell’uso del suolo, trasformazioni territoriali e processi di desertificazione dell’ISPRA. “Pensiamo in primo luogo alle nostre regioni meridionali. Ma la diversa distribuzione nel corso dell’anno di quantità disponibile causata dai cambiamenti climatici mette tutto il nostro territorio in pericolo”.

Eppure, “Intervenire è non solo utile dal punto di vista ambientale e sociale ma anche un ottimo investimento economico”, ricorda Anna Luise, Corrispondente Tecnico-scientifico della UNCCD e aggiunge che “Per ogni euro investito sul ripristino dei suoli si ottiene un risparmio di mancati costi attorno ai 30 euro”.

IMPERMEABILIZZAZIONE E BONIFICHE

La strada da fare è ancora lunga. I dati sull’impermeabilizzazione e coperture artificiali sono ad esempio particolarmente allarmanti anche se sono tra i più noti anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, grazie al meritorio lavoro dell’ISPRA che, da ormai un decennio, dedica al tema un rapporto ad hoc. “La copertura artificiale del suolo – ha ricordato durante la conferenza Michele Munafò, responsabile del Servizio per il Sistema Informativo Nazionale Ambientale dell’ISPRA – è arrivata al 7,14% del territorio nazionale. La media UE è del 4,2%. Ma in Lombardia, Veneto e Campania, tre delle aree più fertili del Paese, si supera già il 10% di impermeabilizzazione. Nelle provincie di Monza, Napoli e Milano il dato è ben oltre il 30%. Per di più, i suoli urbani sono quelli nei quali il consumo di suolo si è più intensificato negli ultimi anni. Sono così scomparse preziose aree permeabili, aggravando i danni da allagamenti e ondate di calore”.Va meglio sul fronte bonifiche. L’Italia conta attualmente 42 siti di interesse nazionale, che occupano 170mila ettari a terra e 78mila a mare, distribuiti all’interno del territorio italiano in maniera omogenea tra nord, sud e isole maggiori. Per bonificarli, il Ministero dell’Ambiente ha finora stanziato 2,25 miliardi di euro. “Dal 2014 ad oggi sono state restituite e quindi resi riutilizzabili circa 7565 ettari di suolo favorendo quindi la concreta applicazione dei principi di sostenibilità e di circolarità” ricorda Laura D’Aprile, capo del Dipartimento Transizione ecologica e investimenti verdi del Ministero dell’Ambiente. “Il trend è sempre crescente grazie anche al nuovo approccio utilizzato in primis dall’amministrazione centrale e di conseguenza da tutti gli operatori di settore, pubblici e privati, che si sono adoperati a raggiungere gli obiettivi prefissati, consapevoli delle opportunità che la bonifica di aree contaminate può offrire. Nel campo della bonifica dei siti contaminati risultati significativi possono essere conseguiti unicamente coinvolgendo tutti gli attori del settore: amministrazioni centrali e territoriali, enti di ricerca e università, aziende, associazioni e cittadini”.

DATI, BUONE LEGGI, CONOSCENZA E UN’AGRICOLTURA “AMICA DEL SUOLO”

Un approccio partecipato e percorsi condivisi che, oltre al problema del recupero delle aree contaminate, possono essere molto efficaci per curare anche molti altri mali del suolo. A ribadirlo sono i diversi rappresentanti delle tre società del suolo intervenute alla conferenza e che, all’interno del Rapporto, hanno indicato una serie di proposte concrete. A partire dall’esigenza della possibilità di poter contare su un minimo data set di indicatori da riunire in un indice di qualità del suolo. “Un indice – ricorda Giovanni Gigliotti, presidente della Società Italiana di Chimica Agraria – può essere usato per predire gli effetti dei sistemi agrari, delle pratiche agronomiche sulla qualità del suolo, o può evidenziare i primi segni della sua degradazione”. In tal senso, va ricordata positivamente la proposta della Mission Soil UE di usare 6 indicatori fondamentali: a ciascuno andranno associate delle soglie per verificare l’effetto delle diverse pratiche di gestione del suolo, in modo da poter distinguere quelle effettivamente sostenibili.

“Un’agricoltura ‘amica del suolo’ – aggiungono i rappresentanti del Comitato direttivo della SISS (Società Italiana Scienze del Suolo) – deve essere capace di adattare i sistemi agricoli alle condizioni esistenti, programmando operazioni che nel tempo riescano a riabilitare i suoli. In molti casi, il recupero o la rivisitazione delle sistemazioni idraulico-agrarie può essere la chiave di volta per permettere la reintroduzione di sostanza organica nel suolo”. Molte azioni possono essere messe in atto ma – aggiungono gli esponenti SISS – “devono essere intraprese di comune accordo tra amministratori, esperti, aziende agricole e cittadini”.

Ovviamente tutto ciò è reso più difficile dalle lacune legislative. “La legislazione italiana sul suolo è carente” denunciano i vertici della SIPe (Società italiana di Pedologia). “Nessuna proposta è andata oltre l’approvazione di un solo ramo del Parlamento. Auspicabili provvedimenti legislativi devono però basarsi su indicatori e modelli scelti e validati per fornire informazioni e schemi interpretativi della salute del suolo. In questo senso la SIPe (nel 2013 e nel 2022) si è fatta promotrice – con la collaborazione di tutte le società scientifiche agrarie (AISSA) – di una proposta di legge quadro sul suolo (il ddl 2614 nella XVIII legislatura)”. Ma altrettanto importante è aumentare la consapevolezza diffusa tra l’opinione pubblica sull’importanza del sistema suolo per il futuro dell’Umanità: “La formazione scolastica ed universitaria – aggiungono dalla SIPE – assume un ruolo fondamentale per smuovere l’attuale apatia nei confronti dei problemi del suolo; infatti una buona parte di studenti che si iscrive all’università non conosce l’esistenza di queste discipline”.


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