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Perché parlare di revenge porn è il primo passo sbagliato nella direzione giusta

Fare le cose giuste nella maniera giusta, non è semplice. Dopo l’inchiesta di Wired sui canali Telegram, pubblicata a inizio aprile e ripresa da numerose testate, in Italia si è ricominciato a discutere del fenomeno che si usa chiamare revenge porn. Ai fini del dibattito pubblico, trattandosi di un tema così delicato e recente, è indispensabile interrogarsi sui termini che si usano per affrontare la questione, perché le parole “revenge porn” non sono solo un semplice modo di nominare un reato, ma prima di tutto stabiliscono in maniera inconscia un punto di vista ben specifico sul fenomeno, influenzando fortemente la nostra comprensione della vicenda.

Per capire meglio come una semplice parola possa avere un effetto sulla comprensione di un fenomeno così complesso, è necessario fare una piccola divagazione sul concetto dei frame o framework, ovvero quello delle strutture mentali le quali vengono attivate nel nostro cervello quando percepiamo determinate parole. I frame selezionano alcuni aspetti di un concetto, dando loro maggiore rilevanza, e ne trascurano altri. Immaginiamoci una tela di dimensioni molto grandi sul quale possiamo muovere una piccola cornice che, ogni volta che viene spostata, inquadra un’immagine diversa, nonostante si trovi sempre sulla stessa tela. Cruciale è dunque il fatto che i frame raccontano un determinato punto di vista di una faccenda – ovvero quello che si trova all’interno della cornice – mentre la controparte, ciò che si trova all’esterno, ne rimane esclusa. Un esempio che viene spesso riportato da George Lakoff, pioniere della linguistica cognitiva e della teoria dei frame, è la differenza della percezione dell’argomento delle tasse se si sostituiscono le espressioni “tax relief”, agevolazione fiscale, con “tax responsability”, responsabilità fiscale.

Ma quando si parla di “revenge porn”, o in italiano “porno vendetta” quale parte della tela viene inquadrata?

Treccani definisce porno vendetta la “diffusione nella Rete di immagini o di video che violano l’identità di una persona, realizzata in genere da un ex partner, senza il permesso del soggetto raffigurato o ripreso, con lo scopo di causargli angoscia o imbarazzo e come forma di vendetta o molestia”. Ma si potrebbe raccontare il fenomeno anche come segue: Un ex partner, ad esempio dopo la fine di una relazione, diffonde online in maniera illecita del materiale estremamente intimo e privato, realizzato e condiviso dalla coppia in un momento di totale fiducia, materiale che però viene poi utilizzato per danneggiare profondamente la persona coinvolta, di solito la donna (ma non sempre), per intimidirla, denigrarla e ferire la sua sfera più intima e personale.

Ecco che si evidenziano qui due punti di vista contrastanti, quello dell’aggressore e quello della vittima. Entrambi fanno parte della stessa tela che raffigura l’intero fenomeno, solo che le parole “revenge porn” appartengono decisamente a quella parte che racconta la prospettiva dell’aggressore, per cui, ogni volta che ne parliamo in questi termini, assumiamo inconsciamente quello specifico punto di vista. Vediamo meglio cosa significa.

La parola “revenge”, o in italiano vendetta, è l’atto che segue a un significativo danno materiale o morale subìto in precedenza, e che produce un effetto soddisfacente. Nel caso del revenge porn questo danno può essere di varia natura, come ad esempio la fine della relazione che ha generato una forte rabbia nei confronti dell’ex partner, motivo per cui l’aggressore si sente giustificato a compiere l’atto vendicativo.

La parola “porn”, o pornografia, per definizione è il materiale erotico realizzato con lo scopo di stimolare lo spettatore. Caratteristiche fondamentali di immagini e video pornografici sono la realizzazione con lo scopo di diffusione, da attori e attrici o modelli e modelle del settore, previo contratto e dunque con il loro consenso e sotto condizioni di retribuzione. E’ chiaro che il fenomeno del revenge porn non ha niente a che fare con la pornografia professionale, se non per il mero fatto che può risultare stimolante per lo spettatore. Ma non c’è stato nessun contratto di retribuzione alla base, né è stato dato il consenso alla diffusione del materiale altamente sensibile.

Appare evidente che il framing del fenomeno attraverso le parole “revenge porn” implica l’assunzione del punto di vista dell’aggressore ovvero di colui (o anche colei) che viola la sfera più intima e privata di una persona attraverso la diffusione di materiale sensibile su Internet, luogo in cui il viaggio dello stesso materiale diventa incontrollabile. Il frame delle parole “revenge porn” oscura totalmente il punto di vista della vittima, che è impossibilitata a difendersi da una tale violazione e, nel caso di pubblicazione dell’indirizzo o del numero telefonico, è persino costretta a subire vere e proprie minacce fisiche, per non parlare degli effetti sulla salute psicologica o sulla vita sociale e anche professionale delle vittime. A febbraio una dottoressa di Brescia vittima di questo fenomeno, la cui identità per ovvi motivi rimane anonima, ha subìto un licenziamento motivato dal “danno di immagine” recato allo studio medico dove lavorava. Invece il caso probabilmente più noto degli ultimi anni è quello di Tiziana Cantone, una donna di 29 anni, la quale in seguito a un video erotico diffuso in rete non ha più visto altra via d’uscita che togliersi la vita.

Parlare del fenomeno revenge porn è cruciale per la sensibilizzazione sulla tematica, ma lo si deve fare nei termini giusti. Se la società vuole proteggere le vittime di quel tipo di aggressione, bisogna cambiare punto di vista affinché non si propaghi quello degli aggressori, poiché i frame, come evidenzia Lakoff al livello neuroscientifico, si radicano man mano nel nostro cervello con il loro continuo utilizzo. Si tratta di vere e proprie strutture mentali, le cui sinapsi, più vengono attivate, più si rafforzano e facilitano l’attivazione di quello stesso circuito. Più parliamo di revenge porn in questi termini, più rinforziamo la connessione del fenomeno con i concetti della vendetta e del porno, e dunque lo leghiamo al punto di vista dell’aggressore, comprendendo il fenomeno da esattamente quella prospettiva.

E’ per questo che parlare di “revenge porn” è il primo passo sbagliato – poiché rafforzativo della prospettiva dell’aggressore – nella direzione giusta, in quanto costituisce il tentativo di sensibilizzazione della società e della protezione delle (possibili) vittime, ma nella maniera errata.

Va aggiunto che non si deve neanche tralasciare del tutto il punto di vista dell’aggressore perché è altrettanto fondamentale interrogarsi sulle motivazioni che spingono gli aggressori a compiere quel reato. Però se si vuole comprendere più a fondo questo fenomeno, è necessario trovare un’espressione adeguata che prenda in considerazione il punto di vista delle vittime.

Dunque, quale potrebbe essere questo termine? Tornando all’inchiesta di Wired, il giornalista Simone Fontana, come anche già altri prima, utilizza il concetto dello “stupro virtuale di gruppo”, combinando in queste parole l’aggressiva violazione della sfera più intima e privata con le devastanti conseguenze psicologiche per le vittime nel mondo virtuale e sconfinato di Internet. Non è facile trovare un’espressione del tutto adatta che racchiuda ogni aspetto di questo violento reato. Tuttavia l’espressione “stupro virtuale di gruppo” sembra essere una valida alternativa a “revenge porn” poiché solo adesso in questa diretta contrapposizione ci si rende conto della forza e delle fondamentali differenze tra queste parole.

Quale sarà la scelta del dibattito pubblico? C’è ancora tempo per cambiare rotta? Non si sa. L’unica cosa certa è che è importante interrogarsi sulla tematica ora, prima che l’abitudine abbia fatto la scelta al posto nostro.


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