La moda insostenibile
La moda sta diventando sempre più insostenibile. Il Bangladesh è il secondo produttore di indumenti al mondo dopo la Cina:

con un mercato da 25 miliardi di dollari all’anno, l’industria tessile bengalese ha garantito l’80 per cento delle esportazioni del paese, delle quali almeno l’80 per cento verso l’Unione Europea.
Dietro a un bel vestito luccicante di Zara o HM ci sono condizioni di lavoro disumane, pericolose e, molto spesso, si tratta di lavoro minorile. Ogni anno ci sono migliaia di morti o incidenti gravi sul lavoro come quando, nel 2013, cadde un intero palazzo di 8 piani a Dacca per le vibrazioni delle macchine da cucire e per la costruzione fatiscente del fabbricato: morirono più di mille persone.
Ma è questo il prezzo di un vezzo modaiolo? Non solo catene di basso costo, ma anche marchi di lusso come Ralph Lauren, Hugo Boss e Giorgio Armani scelgono di rivolgersi ai lavoratori del Bangladesh.
Ma quanto costa una semplice Tshirt made in Bangladesh? Può essere utile per capire l’incongruenza tra il prezzo all’ingrosso e quello al dettaglio, e come sia essenzialmente il marchio la caratteristica determinante per il prezzo. Una t-shirt di Tommy Hilfiger prodotta in Bangladesh in un negozio di Milano costa quasi 40 euro quando all’azienda è costata l’equivalente di 3,80 euro.
Per una lavoratrice dell’industria tessile il salario dipende dalla sua abilità e non ha nulla a che fare con il fatto che stia cucendo una maglietta di un marchio “costoso” o di uno più popolare ed economico.
Oltre alla materia prima, anche il costo del lavoro incide sui costi di produzione: il governo del Bangladesh, dopo l’incidente del 24 aprile 2013, si è impegnato ad aumentare il salario minimo – che è attualmente l’equivalente di 29 euro al mese, uno dei più bassi al mondo, circa un quarto di quello cinese – per portarlo all’equivalente di 78 euro al mese. Raddoppiare il salario minimo significherebbe aggiungere tra i 7 e i 10 centesimi di euro al costo di produzione di ogni singola t-shirt.
I consumatori sarebbero disposti a pagarli, ma le aziende detentrici del marchio a quanto pare no.
Nonostante la firma di 31 multinazionali tessili che operano in più di mille fabbriche in Bangladesh, insieme alla federazione internazionale IndustriALL Global Union (a cui aderiscono 900 sindacati di 140 paesi, con circa 20 milioni di iscritti), oltre a diverse ong, per l’Accord on Fire and Building Safety, un protocollo sulla prevenzione degli incendi e la sicurezza negli edifici con cui ci si impegna a non fornire commesse alle fabbriche che non risultino in regola con le norme di sicurezza, le condizioni per i lavoratori continuano ad essere critiche e pericolose.
Gli incidenti si sono leggermente ridotti, ma sono sempre molto soventi e non c’è modo di arginare il lavoro minorile. L’accordo è stato firmato, tra gli altri, da H&M (la più grande acquirente di capi di abbigliamento dal Bangladesh), Benetton, le britanniche Primark e Tesco, la statunitense Abercrombie & Fitch e il gruppo spagnolo Inditex (che possiede, tra gli altri, i marchi Zara, Pull and Bear, Bershka, Oysho, Stradivarius).
L’accordo sarà sì una facciata o solo una presa di coscienza, ma molte aziende, però, hanno rifiutato di aderire al patto per evitare di essere tenute a rispondere legalmente delle condizioni di lavoro delle fabbriche da cui si servono come l’agenzia statunitense Ecouterre ha reso noti i nomi di 15 di queste aziende, tra cui Foot Locker e VF Corporation (che possiede i marchi North Face, Timberland e Wrangler).
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